Questa settimana Axiver ha incontrato ed intervistato per voi il 4 volte iridato e 11 volte Campione Italiano Enduro Mario Rinaldi.

In Enduro / Motorally

Presentare Mario Rinaldi non è proprio una passeggiata, nel senso che richiede un po’ di tempo anche semplicemente snocciolare il suo palmares. 4 i titoli mondiali, e cinque volte secondo sempre nel mondiale (due volte per un solo punto). Nell’italiano vince 11 titoli – comincia nell’88 con quello di cross juniores e l’anno dopo passa all’enduro e vince subito il titolo. 4 le vittorie con la squadra italiana alla Sei Giorni.

E’ nato a Rovato, nel 1966, e vive oggi a MonteRotondo, località nel Passirano, in provincia di Brescia. E’ sposato e ha due figli, Gloria di 14 anni ed Enrico di 10 e proprio da loro comincia l’intervista

I tuoi ragazzi vanno in moto? Glielo hai insegnato tu?

“Vanno in moto, sì, per divertimento, e gli ho sicuramente trasmesso questa voglia. Inoltre gli ho insegnato a guidare la moto perchè siano preparati quando un domani si prenderanno un motorino, o uno scooter: è giusto che sappiano gestire l’equilibrio in motocicletta”.

E hanno frequentato la tua scuola ?

“E certo ! Assolutamente sì !”

E cosa ne pensavano di papà insegnante?

“Non vogliono più saperne. Mi hanno accusato di essere troppo severo. Una volta imparato a guidare la moto non li ho più visti !!” e ride di gusto.

Adesso parliamo di Mario Rinaldi motociclista e vediamo invece i tuoi esordi in sella…

“Bè, facile a dirsi. Abitavo in mezzo alla campagna e lì per andare in giro usi dapprima la bicicletta e poi, per forza, la moto da fuoristrada. Inoltre stimolato anche dal fatto che nella zona Franciacorta si correva la popolare 12 ore…avevo sei anni e mio papà mi portava a vederla, così mi sono innamorato. Noi in quegli anni eravamo molto liberi e guardando queste moto è nato l’amore, da lì è cominciato tutto !”

La prima moto?

“I miei mi hanno comprato la prima moto a 14 anni, un motorino usato, Ancilotti 50, con un po’ dei miei risparmi e con l’aiuto dei miei genitori. Era il primo 50 codice. I miei però, mi avevano anche strappato la promessa di non usarla per fare gare e così ci andavo in campagna”.

Ma i tuoi, in fondo, ti avevano comprato la moto, perchè erano contrari?

“Anche se mi avevano aiutato i miei erano abbastanza contrari, però avevano accettato che io la usassi perché mi vedevano davvero convinto. Io ci credevo davvero ! Non pensavo certo di diventare un professionista, non credevo ci fosse la possibilità di diventare un campione del mondo, però mi piaceva talmente questo sport, lo vedevo come un sinonimo di libertà: libero di scorrazzare nei campi, libero di saltare, libero di correre. Poi, ovviamente, cominciando a girare vieni a contatto con altre persone che ti vedono andare in moto e ti avvicinano, per esempio i direttori dei Moto club. Ti stimolano ancora di più, ti spronano, e ti dicono dai, fai qualche gara…”

Ce n’è stato qualcuno in particolare?

“Un po’ tutti devo dire, quelli delle mie parti mi spronavano. E io intorno ai 16 anni mi sono avvicinato al cross, forse perché mi sembrava una formula più semplice. Andavi lì con il carrello – spiega tornando indietro con la memoria –  con la moto, senza assicurazione, senza niente, e giravi in pista. Sono arrivato ad essere junior nazionale, fra i 18 e i 19 anni. Ma non mi bastava. Tutti i miei amici facevano enduro e mi dicevano, ‘ma perché non provi a fare una gara delle nostre?’. E così ho accettato, a 20 anni, mi sono fatto la licenza di enduro e ho corso. Ho visto subito che andavo bene, fin dalle prime gare anche perché ripeto, mi allenavo sempre in questi posti e quindi….”

Andare bene nelle prime gare cosa significa? Cosa hai fatto nella prima gara?

glielo chiedo con fare sospettoso, e infatti lui scoppia a ridere:

“Bè la prima gara l’ho vinta subito ! – e ride ancora – “però prima c’era stata una gara a coppie, dove avevo corso con Alessandro Gritti..”

Ah, però, te n’eri scelto uno scarso (scherzo!)

“Sì infatti – ride anche lui –  e abbiamo vinto, ma grazie a lui, non certo grazie a me ! Da lì poi abbiamo visto che la cosa poteva andare bene e così ho proseguito con il Campionato italiano, che ho vinto già dal primo anno. Ma ero favorito – e lo dice come se si dovesse scusare – perché mi allenavo sui terreni giusti”.

Hai corso sempre con lo stesso moto club?

“No, ho iniziato con l’RS 77 che era il moto club locale e con il quale son rimasto fino al primo titolo mondiale. Poi per esigenze di team sono passato al Lumezzane e poi al Fornaroli. A tutt’oggi sono con il Lumezzane” e mentre lo dice ci pensa su e a bassa voce chiede a se stesso…’ma ce l’avrò ancora la licenza?’.

Ma tu hai mai lavorato? Avevi cioè un tuo lavoro quando hai cominciato a correre?

“Sì ero un artigiano, lavoravo con dei ragazzi, come muratori. Lavoravamo nelle cantine di Franciacorta, facevamo tante cose diverse. Ho smesso dopo il primo titolo. italiano Junior nel 1989 perché l’anno dopo – 1990 – mi hanno contattato i Vertemati chiedendomi di correre a livello ufficiale con la Husaberg  e mi hanno proposto anche un stipendio mensile, di ben un milione di lire. Così mi sono detto, se riesco a starci dentro, a vivere con questa cifra al mese, ci provo, corro da ufficiale e mollo tutto il resto.”

E ha funzionato?

“Sì, è andata, visto che nel 1990 fui bravo all’Italiano Senior, che sarebbero gli Assoluti di oggi e poi raccolsi buoni risultati anche alla Sei Giorni. Fu allora che – grazie anche agli ottimi rapporti con Arnaldo Farioli e con un concessionario Ktm – venni agganciato e corsi con loro. Era il mio sogno perché con il team Farioli avrei potuto correre il mondiale e così ci ho provato !”

E poi sono arrivati anche gli sponsor ?

“Nel 1991 sono riuscito a trovare anche qualche sponsor che mi ha supportato e così mi sono ritagliato il mio stipendietto. Poi dal 1992 invece i contratti sono diventati più importanti grazie alla Ktm: avevamo un contratto ben preciso che ci dava la possibilità di fare i professionisti a tempo pieno.”

Quanto ha contato per te essere nato in una zona dove si mangia pane e moto?

“E’ stato importantissimo ! La mia passione ce l’avevo dentro ed era unicamente quella. Uscivi da casa e davanti al cancello vedevi passare le moto, gli amici avevano la moto, insomma direi che ha contato almeno al 90 %”.

Parliamo della tua “leggendaria” rivalità con Giovanni Sala…ma era vera oppure ci ricamavano un po’ sopra?

“No, era proprio vera. Ti racconto com’è nata, dal principio. Io da due anni attendevo l’evoluzione del 4 tempi Ktm nuovo, che era rivoluzionario, rappresentava lo sviluppo tecnologico dei 4 tempi. Sia io sia Giovanni eravamo in squadra Ktm ufficiale, ma lui correva con il 2 tempi. Finalmente arrivò la moto nuova ma i vertici della squadra mi dissero che non potevano rischiare di perdere il mondiale, che lo volevano vincere al 100 per cento e per questo si sentivano costretti a mettere in sella un altro pilota, oltre me. Dovevo accettarlo, a livello professionale. Ovviamente – alza un pochino le spalle – sai com’è…aspetti da una vita ‘sta moto e che fai, accetti. Io pensavo che avrebbero scelto un pilota straniero, magari Bernard (come dopo è stato) ma quando mi hanno detto che sarebbe stato il Giò sono rimasto esterrefatto ! Improvvisamente il mio compagno di squadra, con il quale in trasferta si divideva tutto, si dormiva in camera insieme, il mio amico inseparabile diventava il mio avversario. Inoltre in quel periodo eravamo anche i due piloti più forti della categoria…insomma è stato inevitabile che nascesse un po’ di rivalità. Poi però con gli anni si è sistemato tutto, quando ognuno di noi ha scelto la sua strada, ci siamo ritrovati e oggi tutto è tornato come prima. Ovvio che allora la cosa ci avesse dato un po’ fastidio”.

E il famoso titolo a pari merito nel 1999 andato a Giò per la vittoria nell’ultima speciale della stagione?

Sospira ripensandoci : “Già, il famoso titolo…con lo stesso numero di punti… e poi la discriminante della vittoria dell’ultima prova, il Giò che vince il mondiale… Certo io ero contento per lui, andava benissimo e poi Ktm fu brillante, come sempre, e riconobbe anche a me il premio del titolo mondiale, uguale a me come al Giò. – e poi ammette – Certo che quell’anno viaggiare, andare in trasferta con il tuo amico, che è anche il tuo avversario, non era per niente piacevole, e neanche facile”.

E in questi ultimi anni Mario Rinaldi che cosa ha fatto?

“Ho chiuso la mia carriera mondiale – l’ultima stagione da professionista nel Campionato del Mondo – nel 2005, e già collaboravo con Husaberg, così sono rimasto con loro per test, promozioni, ecc ecc. Nel frattempo è nato un contatto con la Federazione Motociclistica Italiana e Franco Gualdi che mi ha chiesto se nel 2011 sarei andato a dare una mano, come super visore, nei due campionati italiani: Major ed Under23/Senior. Io non gli ho detto subito di sì, ho preso tempo, dicendogli che se non avesse trovato nessuno in grado di farlo, ci avrei pensato su”.

Perché prendesti tempo? Non ti piaceva l’idea ?

Sinceramente in un primo momento no. Attualmente ho una mia scuola, faccio corsi di guida, in cui collaboro con Husaberg, ho tantissimi impegni… e così inizialmente avevo temuto di non avere tempo. Però adesso – l’intervista è di maggio 2011 – dico la verità, dopo aver fatto queste prime, poche gare, mi sono reso conto che è una mansione difficile, di responsabilità, ma mi piace. Sto capendo come funziona, come bisogna comportarsi, mi piace e sto anche divertendo. Abbiamo un contratto annuale con la Federazione e così provo. Se alla fine dell’anno io o altre persone coinvolte non saremo contente potremo chiudere il rapporto, altrimenti vedremo”.

Una curiosità, tanti piloti della tua classe, con la tua stessa esperienza poi si sono dati alle gare africane, tu invece no, sei venuto una volta al Faraoni e poi più nulla, come mai?

“E’ vero. A me l’Africa è sempre piaciuta, la vedevo come una cosa bellissima, mi ha sempre affascinato e ho sempre seguito le gare però mi ha sempre fatto un po’ paura, mi ha sempre frenato un po’ la velocità …si corre in un territorio che non conosci. Non sai mai cosa ti passa sotto le ruote, corri a vista. E poi il rischio. Quando la competizione diventa importante allora i rischi sono parecchi, a volte si giocano delle carte che… – si interrompe un attimo, ci pensa su e poi riprende – tanto è vero che valutando e verificando i compagni che sono mancati in questa disciplina si crea un freno in me anche se la navigazione mi piace moltissimo! Le gare con road book o GPS, dove la velocità non conta, mi allettano. Ne ho fatta una di gara così ed è stata bellissima”.

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